Varcato il primo cancello d’ingresso, che rimane l’attuale perchè così realizzato intorno al 1400 dai Prades per motivi strategici essendo l’antico accesso rivolto verso la zona di Terravecchia (ad Est), agli occhi del visitatore si offre una imponente e scenografica rampa costeggiata a destra da una massiccia fila di merli realizzata dalla famiglia Amato nel 1600 ed a sinistra da un alto e sontuoso edificio detto “ala Prades”.
Quest’ultimo è caratterizzato da tre finestre bifore sottostanti alle quali notiamo tre monofore (internamente corrispondono ai locali della scuderia) che sovrastano altrettante feritoie o caditoie attraverso cui venivano rovesciati - sugli eventuali assalitori - olio bollente, pece liquefatta, zolfo acceso o lanciate delle frecce se il nemico fosse stato più lontano. La parte basale della roccia, rivestita in maniera scoscesa è chiamata scarpa.
Murato sulla roccia si trova un bassorilievo raffigurante una mano che sostiene in equilibrio i piatti di una bilancia sotto la quale scorgiamo le iniziali del verso latino del libro della Sapienza che recita: “DILIGITE IUSTITIAM VOS QUI IUDICATIS TERRAM” D.I.V.Q.I.T. (Amate la giustizia voi che giudicate in terra). Nel 1430 Don Giovanni Bernardo Cabrera, che era stato ufficiale dell’esercito di Alfonso il Magnanimo, ottiene “il diritto del mero e misto impero, con alta e bassa giurisdizione” per i suoi stati di Caccamo, Alcamo e Calatafimi, vale a dire il potere di amministrare la giustizia civile e penale. Questo monito però rappresentava un solo ornamento mentre spesso, all’interno del maniero, i signori consumavano i delitti più nefandi.
La scenografica rampa d’accesso finisce in un pianerottolo, dove si apre un grandioso cancello di ferro battuto risalente al ‘600 che immette, attraverso una seconda rampa, dove tutto è romantico, tutto sembra fatto per gli idilli proprio nel complesso più interessante delle fabbriche del Castello la cui storia non era soltanto di lotte, rivolte ed assedi ma anche di manifestazioni di arte, di amori e di intrighi amorosi.
Superato il cancello d’ingresso, si accede al cortile detto “della cavallerizza”. Sulla sinistra, varcato l’ingresso, in un grande vano ad archi, si trovano infatti le scuderie con il loro selciato originale nel quale sono ricavate canalette per lo scolo del liquame ed in fondo un bellissimo abbeveratoio costituito da una vasca in pietra del 1400. Da questo ambiente si accede alla grande cisterna e ad un piccolo ambiente, che si trova alla base di una torre, un tempo usato come ossario.
Questi ambienti si trovano sotto la sala delle udienze dei Prades, trasformata - dal principe De Spuches - nel secondo ‘800 in teatro di corte, con adiacente loggetta.
Proprio di fronte al cancello: il prospetto chiaramontano del ‘300 nella parte basale privo di scarpa tant’è che si nota la roccia viva. Verso Est si erge una torre detta Gibellina dall’arabo gibel che significa rivolta verso la città.
L’edificio del 1400 che si erge a destra del cancello è invece il corpo di guardia da dove si sviluppava il percorso assegnato alla ronda per svolgere, dietro i merli, il servizio di sorveglianza.
Di fronte al teatro notiamo un passaggio privo di cancello la cui sommità si appoggia sulla roccia e costituito da due archi sovrapposti: quello inferiore a tutto sesto risale al 1600, quello superiore a sesto acuto di epoca chiaramontana (1300). A terra, alla base del passaggio, un blocco di pietra ha incisa la data del 1778.
Lasciamo così alle nostre spalle il romantico cortile detto anche “a tenaglia” per accedere - costeggiando a destra la cappella di corte - ad un panoramicissimo terrazzo merlato al cui orizzonte si scorge verso Nord-Est il promontorio di Capo Zafferano che emerge come un cono dal mare.
Ci troviamo esattamente alla base di quella che fu l’antica torre Maestra, con sottostante cisterna d’acqua, che si ergeva per 75 metri in altezza ma andata purtroppo distrutta durante il terremoto del 1823.
Pare che dalla sua sommità un tempo partivano segnali “all’indiana” che raggiungevano le torri di avvistamento visibili di altri castelli come quello di Vicari. Sulla parete esterna si notano dei buchi che servivano a far defluire l’acqua in eccesso, ed a proposito di acqua desideriamo portare a conoscenza dei nostri lettori che il Castello non è stato mai espugnato, e che all’interno racchiudeva ben sette cisterne ed anche un mulino a vento.
In considerazione di ciò desideriamo segnalare un episodio abbastanza significativo tramandatoci dalla tradizione popolare. Pare che durante un assedio, non riuscendo le forze nemiche ad espugnare il Castello, rinunziarono agli assalti sicuri di potere costringere gli assediati ad arrendersi per fame. Invece gli stessi, per dimostrare che di vettovaglie erano forniti in abbondanza, calarono dalle mura agli assalitori: fascelle di ricotta ancora calde, formaggio fresco e pane appena sfornato. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che nel Castello esistevano oltre alle officine per la fabbricazione di frecce ed armi, anche le sette cisterne d’acqua ed il mulino appena citati, ma anche magazzini capaci di contenere una gran quantità di grano, dispense per ogni specie di viveri e forni per la cottura del pane. Un complesso di servizi che non era stato valutato dagli assalitori che, constatata l’inutilità degli sforzi, rinunziarono all’assedio.
Sempre a proposito di autosufficienza del Castello dobbiamo ricordare che ogni qualvolta si correva il pericolo di un attacco, tutta la popolazione si ritirava nella cittadella attigua al maniero e se gli assedi duravano a lungo, le donne, dopo aver prestato la loro opera a beneficio della comunità, si dedicavano anche alla lavorazione di quelle originali ed artistiche bisacce di cuoio e di lana che fino al 1960 costituirono un vanto per l’artigianato caccamese e motivo di vivo interesse turistico.
Ma riprendiamo la nostra visita al maniero dirigendoci a destra di questo terrazzo merlato verso un vano sormontato da un arco a sesto acuto in tufo realizzato nel 1500 dagli Henriquez e che rappresenta l’ingresso alla scalinata d’accesso alle prigioni. Subito a sinistra si nota una costruzione in mattoni di argilla a forma di giara usata per la preparazione di pece bollente che sarebbe servita per spruzzarla sui nemici assedianti. Scesa la scala, superato uno spazio di terra coltivato ad orto, su una parete rivolta ad Ovest si aprono delle strane aperture che rappresentano le porte di accesso alle prigioni. Un immediato passaggio dalla luce alle tenebre: tetti bassi, giacigli in muratura, vani dalle pareti umide ed annerite, con disegni di chiese, di campanili, di cavalli, di coltelli,di armi, di stivaletti femminili di foggia ottocentesca con bottoni e figure varie che esprimono certamente lo stato d’animo di chi si trovava in attesa di giudizio. E poi una serie di scritte tra le quali una ha uno strano sapore attuale: “con l’arte e con l’inganno si vive mezzo anno; con l’inganno e l’arte si vive l’altra parte”.
Tra le celle carcerarie: la più importante e più grande poteva ospitare sei prigionieri; quella da brivido, immersa totalmente nel buio, larga e lunga un metro per un metro con un piccolo sedile in muratura ospitava il detenuto che veniva murato vivo al suo interno.
Al centro del cortile delle prigioni si nota una fossa dove venivano rinchiusi i prigionieri per essere torturati.
Ultimata la visita delle prigioni ci dirigiamo verso il terzo ingresso che dovrebbe essere preceduto da un fossato con ponte levatoio che immette nel corpo centrale e residenziale del Castello. Varcato l’ingresso ci troviamo in un piccolo atrio detto “a bocca di lupo” dove notiamo interessanti resti della storia del maniero. Una lapide subito a destra ricorda il ritrovamento di sette giare piene d’olio per uso medicinale:
“Oleum in dyotis hisce
gemino crucis signo
notatis ex mente
D. Antony Princip
reconditum anno 1673
quo vetustum eo
medendis corporibus
redditur salutare”
“L’olio nascosto nell’anno
1673 in queste anfore a
due manici per volere del
principe Don Antonio
quanto più invecchia, tanto
più diventa efficace a
curare le persone che si
segnano con esso con
doppio segno di croce”
Don Antonio Amato vide in sogno che nel suo Castello esistevano numerosi orci d’olio. Al risveglio, fortemente impressionato di quanto aveva sognato, ordinò degli scavi, presumibilmente nell’orto adiacente e rinvenne effettivamente sette grandi giare contenenti olio essiccato. Delle giare attribuite a tale ritrovamento ne esiste oggi una soltanto.
Un’altra lapide, molto più piccola della prima, contiene una scritta molto significativa e sempre attuale:
“Tempore felici
omnes gaudent amici.
Dum fortuna perit
nemo amicus erit”
“Nel tempo fortunato
tutti godono dell’amicizia.
Quando la fortuna finisce
non si troverà nessun amico”.
Di fronte sta invece collocato lo stemma di Caccamo rappresentato dalla testa di cavallo e dal Triscelon (la Trinacria). In effetti nel 1641 Don Giovanni Alfonso Henriquez de Cabrera, conte di Modica e signore di Caccamo, ricevette la nomina a viceré di Sicilia ed in quella occasione i caccamesi gli donarono 3.500 scudi.
Due anni dopo, il viceré di ritorno a Palermo da Messina, sostò a Caccamo ed il 12 novembre 1643 in segno di riconoscenza per l’accoglienza ricevuta, eleva Caccamo al rango di città ripristinando alla stessa il titolo di “urbs generosissima” che alcuni secoli prima le era stato attribuito da Federico II lo Svevo e proprio in quella circostanza alla città fu dato il nuovo stemma che in pratica è quello attuale. Contemporaneamente al primo cittadino fu attribuito l’appellativo di “magnifico” ed alla amministrazione civica fu conferito il diritto di farsi scortare, nelle manifestazioni ufficiali, da due mazzieri e da quattro conestabili. Nell’arco di questo secolo Caccamo subì una svolta significativa trasformandosi da semplice borgo rurale in una splendida cittadina; l’abitato si estese oltre l’antica cinta muraria e si arricchì di numerosi monumenti con un considerevole ed ulteriore incremento del già ricco patrimonio artistico.
All’angolo destro del vestibolo c’è una scala scavata nella roccia che immette nei locali sottostanti la corte principale riservata alla servitù ed alla conservazione delle derrate alimentari nonché nei sotterranei; si presume che questo varco dovesse essere l’antico accesso al Castello da occidente cioè dalla zona di Terravecchia. Finalmente poi attraversato un alto arco in muratura a sinistra, ci si immette in un ampio atrio rettangolare con pavimentazione a tela di ragno capace di contenere centinaia di uomini dove i Signori del Castello tenevano le adunate in tempo di guerra. In questo grande cortile notiamo gli anelli in pietra per i cavalli e le tracce di un sistema di condutture in argilla che raccoglievano le acque reflue dei tetti per convogliarle nelle cisterne, si notano anche i resti di un forno e di alcune fornacelle.
L’ingresso principale è costituito da un portone in legno ai due lati del quale stanno due colonne di pietra e sopra, oltre allo stemma della famiglia Amato, una scritta in latino che ricorda la sconfitta degli Angioini nel 1302 con la quale si elogia il duca don Antonio Amato per aver ingrandito e restaurato il Castello:
Hospes
arcem, quam gallus invicta olim
expalluit praeceps deinde annorum
edacidas poene contriverat sed hanc
D. Antonius Amato princeps Galati
dux Asti, Caccabi dominus, milesque
Alcantarae, pro sua ingenii liberalitate,
qua labantem retinuit qua
patulam clausit, qua dirutam
sustulit, qua mancam, circumiectis
in loco propugnaculis amplificativ.
Ospite,
questo Castello, dinanzi al quale
un tempo i Francesi impallidirono,
che poi l’irrefrenabile voracità
del tempo aveva quasi consumato,
Don Antonio Amato, Principe di Galati,
Duca di Asti, Signore
di Caccamo e soldato di Alcantara
per la sua generosità d’animo,
restaurò dove era cadente, dove
era aperto lo chiuse, dove era
distrutto lo risollevò, dove era
incompleto lo ampliò ponendovi
intorno delle fortificazioni.
Varcato il portone ci immettiamo nel salone delle armi o sala della congiura ormai spoglia ed un tempo, fino al 1974, ornata di armi, scudi, pugnali, pistole, archi, frecce, elmi, archibugi ed armature antiche.
Il salone, il più grande del Castello, si affaccia verso il quartiere di Terravecchia con due grandi balconi in pietra attraverso i quali si ammira la grande mole del Duomo di epoca normanna ed il suo alto campanile.
Il tetto del salone è costituito da bellissimi resti di soffitti lignei del seicento in parte restaurati nell’800 dalla famiglia De Spuches.
Non troviamo più neanche due statue di Mori ed un altro ancora in atto di uccidere con una lancia una pantera. Come dicevamo prima, questo vastissimo ambiente è definito “sala della congiura”, proprio perché, secondo la tradizione, fu qui dentro che nel 1160 si riunirono sotto la guida di Matteo Bonello i Baroni siciliani ribelli al re Guglielmo I detto il “Malo”.
Ma il Re lo fece arrestare a tradimento e lo fece rinchiudere in una oscura prigione, quindi fu accecato e fatto morire fra i più atroci tormenti.
Di fronte all’ingresso notiamo due nicchie all’interno delle quali si trovavano due statue in gesso, al centro invece un varco a sesto acuto ci consente di immetterci in un ambiente completamente rifatto: si tratta di una torre con sottostante cisterna d’acqua piovana.
Dal salone che rappresenta l’asse centrale dell’ala residenziale ci dirigiamo verso Ovest imboccando la porta di un’altra grande sala: il salotto, detto anche “sala del camino”. In questa stanza la nostra attenzione si deve soffermare ad ammirare una finestra pentalobata che riproduce lo stemma dei Chiaramonte. Si tratta di una finestra di stile arabo (moresco) che un fulmine ci ha restituito alla fine del XIX secolo denudandola del muraglione che per tanto tempo l’aveva indelicatamente celata e che probabilmente immetteva ad una caditoia o ad una latrina.
Sta di fatto che è possibile rendersi conto di quanto fosse lo spessore di un muro (di una parete esterna) che in questo punto è di oltre un metro.
La stanza attigua alla sala del camino è una camera da letto con pavimento maiolicato che riproduce l’originario ed una volta con stucchi in gesso dell’inizio ‘800. Degli affreschi si possono ammirare all’interno del bagno adiacente alla camera da letto.
Attraverso un altro ambiente, le cui pareti sono in pietra viva, ci si immette su un ampio terrazzo che domina l’intera vallata del fiume San Leonardo e del lago artificiale che è stato ricavato con lo sbarramento del letto del fiume tramite la diga Rosamarina.
Da questa posizione ci si rende conto come il luogo si prestava a perfezione per dominare su una vastissima parte di territorio circostante da dove si può peraltro ammirare uno spettacolare panorama che spazia da Solunto a Capo Zafferano a Monte Cane ed a Rocca Busambra, mentre verso Sud il Castello di Vicari ed infine Monte Rotondo e la valletta della Mitinia che completano l’arco panoramico. Nel medioevo l’importanza del Castello di Caccamo assurgeva a livello strategico, ciò spiega come la signoria sulla fortificazione di Caccamo si rivelerà indispensabile per poter transitare indisturbati da Nord a Sud dell’isola e viceversa.
Su questo ampio terrazzo fa grande spicco un grande arco trionfale formato da due arcate e sembra proprio che in questo luogo avvenissero dei macabri spettacoli: l’impiccagione di personaggi di rilievo. Tra l’altro desideriamo segnalare che meno di mezzo secolo fa, nella stanzetta ubicata nella parte più settentrionale della terrazza, sono state ritrovate un fascio di spade arrugginite e due grandi scudi di legno. Al margine inferiore di questi ultimi si trovava attaccata (in posizione perpendicolare) una mensola e nella stessa, al centro era infisso verticalmente un chiodo alto circa quindici centimetri.
Dopo varie riflessioni e congetture si è potuto stabilire che gli scudi erano due strumenti di tortura: infatti sui chiodi venivano infisse le teste dei giustiziati che venivano esposte pubblicamente per intimorire la gente.
Cominciamo a percorrere il tragitto inverso e superato l’immenso salone delle armi, passiamo nell’ala opposta. La prima è la sala da pranzo dalle pareti spoglie e dagli affreschi del ‘600 quasi scomparsi col pavimento a mosaico ed i soffitti a cassettoni tardo rinascimentali.
Prima che il Castello venisse venduto dalla famiglia De Spuches alla Regione Siciliana (1963), sia la stanza da pranzo che gli altri saloni erano arredati con mobili antichi e di pregiata fattura, pitture, affreschi, arredamenti, suppellettili e chincaglieria che arricchivano la bellezza decorativa delle sale. Vi sono pure le sale dette della foresteria ed una stanza adibita a camera da letto con accanto una cappella per ospiti con una graziosa botola al centro, utilizzata per eliminare i personaggi più scomodi: quanti metri precipitassero prima di toccare il fondo e la morte, è ancora oggi oggetto di discussione; pare che diverse lame si trovassero infisse nelle pareti ed al suolo che provvedevano a dare sicura e misera morte al malcapitato.
Dalla camera da letto si accede ad una terrazza detta di “bellavista” da cui è possibile ammirare buona parte della città e la zona di monte Rotondo; dalla terrazza si raggiungono poi altri alloggi totalmente ricostruiti con relativi bagni che molto probabilmente in futuro potrebbero essere destinati ad ospitare gruppi di studiosi.
Attraverso due scale in ferro sono raggiungibili gli ambienti rustici a mansarda rappresentati dai sottotetti dai quali si accede ad un terrazzino che veniva utilizzato come zona di avvistamento.
Si conclude così la visita all’antico maniero baronale più grande di Sicilia la cui cittadella era rappresentata dal borgo della Terravecchia ed era chiuso da una cinta merlata per mezzo di quattro porte.
Castello e cittadella venivano difesi da quattro torri avanzate destinate a sostenere l’eventuale primo assalto nemico. La torre di Byrsarone sotto l’estremo sperone del costone roccioso collegata col maniero attraverso un cunicolo segreto; la torre della Piazza che venne diroccata nel 1627 per dare spazio all’ingrandimento del Duomo di San Giorgio Martire; la torre delle campane oggi torre campanaria del Duomo stesso ed infine la torre di sinistra della chiesa della SS. Annunziata adibita anch’essa a torre campanaria.
Una cinta difensiva più ristretta era invece formata dalle torri interne: la più importante, la più antica e la più alta era la torre “Mastra” crollata il 8 giugno 1823 a causa di un terremoto; la torre “Gibellina” è una delle torri dominanti il quartiere di Terravecchia, restaurata dai Chiaramonte dopo il 1300, fu gravemente danneggiata da un fulmine nel 1615, è stata parzialente restaurata nel 1973; la torre della “Fossa” o del “Dammuso” fu edificata dalla famiglia Prades-Cabrera nel 1539 perché dalla parte in cui essa fu elevata, a sinistra del salone della congiura, il Castello era maggiormente vulnerabile.
Il Castello, nel suo complesso, si presenta molto suggestivo e conserva, malgrado i vari rifacimenti, una struttura unitaria equilibrata.
Restaurato definitivamente nei suoi 130 vani, reso totalmente fruibile e trasformato in sede di manifestazioni culturali regionali, nazionali ed internazionali varie, può diventare sempre di più meta turistica e quindi risorsa economica e sociale per tutti i cittadini caccamesi con significativo incremento di tutte le attività economiche, turistiche e collaterali della nostra città.